Il “nuovo” reato di abuso di ufficio in una recente pronuncia della Cassazione.
Con la sentenza n. 8057 del 1 marzo 2021, la Cassazione ha inteso precisare quali siano i casi in cui può essere integrato il reato di abuso d’ufficio, in considerazione delle modifiche introdotte dal d.l. 76/2020.
A cura dell’avv. Maxime Manzari.
La Corte ha ritenuto che, in seguito all’intervento riformatore, il delitto sia configurabile non soltanto in presenza di una trasgressione avente “ad oggetto una specifica regola di condotta connessa all’esercizio di un potere già in origine previsto da una norma come del tutto vincolato“, ma anche nelle ipotesi di violazione “di una regola di condotta collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto dalla legge come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell’adozione dell’atto in cui si sostanza l’abuso d’ufficio“.
IL CASO
In primo grado, l’imputato era stato condannato per il reato di cui all’art. 323 c.p., per avere, in qualità di responsabile della polizia municipale, in violazione di legge, con procedura diretta e senza alcuna preventiva determinazione della giunta municipale, affidato ad un ente il servizio di misurazione elettronica della velocità, procurando a questo un ingiusto vantaggio patrimoniale e un danno alla pubblica amministrazione. In particolare, si contestava anche all’imputato l’aver omesso di inserire, sia nel contratto che nella determinazione intervenuta solo successivamente, un bilancio preventivo dei costi di gestione.
IL RAGIONAMENTO DELLA CORTE
Afferma la Corte che il delitto è ora configurabile solamente nei casi in cui la violazione da parte dell’agente pubblico abbia avuto ad oggetto “specifiche regole di condotta” e non anche regole di carattere generale. Occorre che dette regole siano dettate da norme di legge o da atti aventi forza di legge.
Nel caso oggetto di scrutinio, è stata addebitata all’imputato la violazione di una specifica norma di legge, contenuta nel Codice degli appalti, che all’epoca dei fatti disciplinava l’iter che l’ente avrebbe dovuto seguire nell’affidamento del servizio a terzi.
Il riferimento del riformato delitto al margine di discrezionalità in capo al pubblico agente non può essere invocato nel caso di specie, né in tutti i casi analoghi in cui non vi sia effettivamente alcuno spazio di discrezionalità, quando la violazione della norma di condotta si sostanzi in una preventiva rinuncia da parte del pubblico agente dell’esercizio di ogni potere discrezionale, ovvero quando la violazione intervenga in un momento del procedimento nel quale è possibile affermare che ogni determinazione dell’amministrazione è ormai espressione di un potere caratterizzato dall’essere in concreto privo di qualsivoglia margine di discrezionalità.
IL PRINCIPIO SANCITO
Si deve ritenere, sostiene la Corte, che il legislatore della riforma, nel fare riferimento alla violazione di norme di legge e all’assenza di margini di discrezionalità, abbia inteso richiamare non soltanto i casi di violazione aventi ad oggetto una specifica regola di condotta connessa all’esercizio di un potere già in origine previsto da una norma come del tutto vincolato, ma anche le ipotesi di violazione di una regola di condotta collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto dalla legge come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell’adozione dell’atto in cui si sostanza l’abuso d’ufficio.
LA DECISIONE
Considerate le norme amministrative integratrici del precetto penale di cui all’art. 323 c.p. (Codice degli appalti), che nel caso di specie sono state violate, essendo risultato che l’imputato avesse solo formalmente osservato le prescrizioni ivi previste, sottostimando invece il valore del servizio e così ricorrendo all’affidamento diretto, deve rilevarsi che la scelta adottata a monte, consistita nel non considerare i costi del servizio, in realtà superiori, è stata il frutto non di una valutazione discrezionale, ma della decisione di non rispettare le richiamate vincolanti disposizioni di legge.
Sussiste altresì nel caso esaminato la c.d. “doppia ingiustizia”, richiesta nel delitto di abuso d’ufficio, per cui è da considerarsi ingiusta sia la condotta sia il vantaggio patrimoniale conseguito.
Pertanto, alla luce delle considerazioni richiamate, la Corte ha ritenuto l’imputato responsabile per il reato di abuso di ufficio, per le violazioni di norme di legge contestate e per l’inesistenza di alcuna corretta e consentita valutazione discrezionale.